I Saharawi sono un popolo di rifugiati politici che vivono da oltre 40 anni nel deserto dell’Algeria, trovando rifugio nell'oasi di Tindouf, dopo l’occupazione marocchina della loro terra, il Sahara occidentale. Si tratta di circa 200.000 persone relegate in questo limbo in attesa di tornare a casa. A differenza di quello occidentale, il deserto in cui vivono ora i Saharawi è fatto di rocce ostili, di un clima difficile, dove d’estate la temperatura è proibitiva e d’inverno il forte vento irrita occhi e gola.
Qui non cresce nulla, non c’è vegetazione. Nelle tende spesso manca l’acqua corrente e l’elettricità e le case più costose, costruite con mattoni di sabbia, rischiano addirittura di crollare nel periodo delle piogge. Nei campi profughi la vita è una logorante routine. Sono poche le coltivazioni che possono crescere in un posto così arido e la loro economia si affida agli aiuti umanitari dell’UNHCR e diverse organizzazioni civili di solidarietà. Nonostante ciò, i Saharawi rappresentano un esempio per aver trasformato la condizione di esilio in una forma funzionale di autogestione.

L’organizzazione dei campi, la distribuzione degli aiuti, la vita sociale e culturale, la giustizia, le istituzioni, sono nelle mani dei profughi stessi e del Fronte Polisario, un movimento di liberazione nazionale, creato nel 1973, che si è liberato dal ruolo di esercito di resistenza per rappresentare, ormai, un fondamentale interlocutore diplomatico e politico Saharawi.
Nei campi sono le donne che gestiscono la distribuzione degli aiuti alimentari, dei servizi sanitari e educativi. Le colorate donne Saharawi, nei loro abiti variopinti, sono l’anima di questo luogo, la forza politica e decisionale. La loro disponibilità ad accogliere ogni straniero nelle case, l’enorme forza di carattere che ogni giorno sono costrette a tirar fuori, svelano un’anima fiera Saharawi di cui è difficile non innamorarsi.